Sehr geehrter Herr Präsident, Professor Doktor Günter Ziegler,
Sehr geehrter Herr Dekan, Professor Doktor Georg Bertram,
Sehr geehrter Herr Direktor, Professor Doktor Bernhard Huss,
cara Direttrice Michela De Riso,
es ist für mich eine Ehre und eine Freude, das Programm des Wintersemesters des Italienzentrums zu eröffnen.
L’Italienzentrum è un partner strategico dell’Ambasciata e dell’Istituto italiano di Cultura a Berlino da più di vent’anni. Essere qui oggi è anche un modo per dirvi tre volte grazie.
Grazie per il vostro impegno costante nel rafforzare le collaborazioni nella ricerca e nell’insegnamento tra le Università di Berlino e Potsdam e gli Atenei Italiani.
Le statistiche italiane della Banca Dati CINECA confermano che la Freie Universität Berlin è la prima Università tedesca per numero di accordi di collaborazione con Atenei italiani. Credo che a questo risultato contribuisca ampiamente il vostro Centro Studi Italia, che da più di un ventennio fa della interdisciplinarietà uno dei propri punti di forza.
Grazie anche per contribuire sempre con grande entusiasmo alle iniziative promosse dall’Ambasciata e dall’Istituto italiano di Cultura. Ad esempio, il prossimo venerdì 25 ottobre, quando in Ambasciata si incontreranno gli studenti delle Università italiane che stanno studiando presso un ateneo tedesco grazie al programma di scambio Erasmus+. Oggi l’Italia si trova oggi al secondo posto dopo la Francia quale Paese di origine degli studenti Erasmus in Germania: la crescita, dal 2012, quando eravamo in quinta posizione, è stata esponenziale, con incrementi superiori al 75% ed un numero di studenti in scambio che ogni anno ormai supera le 4.000 unità. Di questi, so che un numero importante è presso le Università berlinesi.
Un sentito “Grazie!” anche per questo, per dare ospitalità ed accoglienza ai nostri studenti italiani. Alla “Generazione Erasmus”, oggi quattro milioni di cittadini europei, l’esperienza di scambio universitario ha spesso cambiato la vita, talvolta l’ha migliorata, e sempre le ha dischiuso nuovi e più ampi orizzonti.
Quella di oggi è una doppia inaugurazione: la prima è quella del vostro semestre invernale, che poi non è altro che un arrivederci a presto, perché proseguiremo già il 26 ottobre a Potsdam con l’Assemblea Annuale della Dante Gesellschaft, fondata nel 1865 e dunque il più antico sodalizio di studi dedicati a Dante. Sarà un bel modo per iniziare a prepararci per il 2021, Anno del Settecentenario della scomparsa del grande poeta italiano.
Oggi inauguriamo anche le attività della Settimana della Lingua italiana nel mondo, che inizierà il 21 ottobre prossimo e che dal 2001 rappresenta una rassegna annuale in cui promuovere la nostra lingua nelle sue più varie sfaccettature.
Quest’anno oltre un migliaio di attività saranno promosse in tutto il mondo da Ambasciate e Consolati sull’Italiano del Palcoscenico, particolarmente pregnante qui in Germania considerata la ampia diffusione dell’operismo italiano nei Paesi di lingua tedesca, fin dal Seicento.
Alcuni compositori, come Handel e Haydin, hanno musicato le loro opere quasi esclusivamente in Italiano. Nei secoli, l’opera italiana ha dominato incontrastata nelle Corti della Germania odierna in città quali Berlino, Dresda, Stoccarda, Monaco. E anche oggi, guardando i palinsesti dei teatri berlinesi, che hanno inaugurato la propria stagione autunnale solo con opere italiane, ci fa piacere pensare che sia ancora così.
Ci rifletteremo assieme al Professor Filipponio il 23 ottobre prossimo all’Ambasciata Svizzera, ringraziando sentitamente la Direttrice dell’Istituto italiano di Cultura, Michela De Riso, per aver promosso questa iniziativa.
L’Italiano è ancora per i tedeschi – come la definiva Thomas Mann nelle sue Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull – “La lingua celeste parlata dagli angeli nel cielo”? Lo scopriremo la prossima settimana.
Vengo ora al tema che abbiamo scelto per la nostra conversazione di oggi, “il soft power dell’Italia”, un tema a cui abbiamo dedicato anche un momento di riflessione il 25 luglio a Roma in occasione della Conferenza degli Ambasciatori. Penso che sia un tema di interesse anche accademico, perché proprio nel 2020 ricorrerà il trentennale della “invenzione” di questo termine, da parte del politologo americano Joseph Nye, che lo definì come “il potere di seduzione che uno Stato esercita sugli altri”. Il soft power seduce, nell’etimologia latina del termine: conduce a sé.
L’accezione del termine è certamente più antica, e se ne trova traccia nella nota “disputa” del Principe di Macchiavelli, “se elli è meglio essere amato che temuto, o è converso”.
Il poeta e filosofo tedesco Friedrich von Schiller considerava il potere come ‘la retorica più persuasiva’. In linea con la tradizione dell’idealismo tedesco, Schiller sublimava l’estetica del potere, assieme agli effetti collaterali di bramosia e hybris che spingono l’uomo verso un’ascesa irresistibile, oppure verso la rovina.
Il potere è, dunque, un discorso seducente. Tuttavia, anche un discorso seducente è potere. Si tratta in fondo di un assunto che, nella tradizione del pensiero occidentale, risale alla scuola dei filosofi sofisti nella Grecia della metà del quinto secolo avanti Cristo e, con varie modalità, è stato analizzato dalla tradizione realista, da quella marxista e post-strutturalista.
Joseph Nye, prima in un articolo uscito nel 1990 su Foreign Policy e poi in un fortunatissimo libro del 2004 con l’intento di correggere la visione realista della politica di potenza, sostiene che un discorso seducente, in grado di cooptare e condizionare il comportamento altrui, non solo rappresenti la chiave del ‘successo’ ma ci dovrebbe portare a rivedere radicalmente la natura stessa dell’esercizio del potere.
Mentre abbiamo tutti una certa familiarità con il potere brutale e coercitivo – sostiene Nye – siamo poco portati a considerare la sua versione ‘soft’: a differenza del potere ‘hard’ che si basa sulla capacità di modificare ‘quello che gli altri fanno’, il potere ‘soft’ sarebbe in grado di modificare ‘quello che gli altri vogliono’.
Il filo rosso che lega i vari stadi dello sviluppo della tesi di Nye è ‘l’attrazione’: la capacità di sedurre attraverso la produzione culturale e cinematografica, le università, l’innovazione, la tecnologia, lo stile di vita – insomma, un discorso su un modello culturale che attragga e seduca gli altri, portandoli a voler essere come te e – capovolgendo il consiglio di Macchiavelli al Principe – ad amarti piuttosto che temerti.
Per raggiungere tale traguardo, il Soft Power non può tuttavia limitarsi a sfruttare pigre rendite di posizione, come quelle relative al “prestigio culturale” e alla bellezza di un Paese. Ha bisogno di istituzioni che lo incanalino verso obiettivi di policy determinati.
Nel Ventesimo secolo, campione indiscusso del Soft Power sono stati gli Stati Uniti: per quanto importanti sia stato il potere militare a porre le basi del successo dell’Occidente nella Guerra fredda, è stato il fascino economico e culturale a conquistare veramente i cuori e le menti di gran parte dei giovani dell’Europa dell’Est. Un rapporto che Washington ha coltivato con una pluralità di strumenti, come Radio Free Europe, fondata nel 1950, o come il Film Liaison Office del Ministero della Difesa, che ha il compito di promuovere i rapporti fra il Pentagono e i produttori cinematografici di Hollywood, e che negli anni ha partecipato alla realizzazione di decine di pellicole, come Top Gun e Iron Man.
Anche la Germania contemporanea ha un suo “soft power”, che affonda le sue radici nella Repubblica di Weimar: nel 2020 si celebreranno i cento anni dalla fondazione della “Auswärtige Kultur und Bildungspolitik”, con la costituzione di un Dipartimento ad hoc presso il Ministero degli Esteri.
Oggi, la politica estera culturale della Germania si contraddistingue per un assetto marcatamente decentrato, con una pluralità di soggetti che concorrono alla sua elaborazione, e al tempo stesso per una sua forte impronta “valoriale”.
Gli Istituti Goethe all’estero, ma anche l’Institut für Aussenbeziehungen di Stoccarda, non si limitano a promuovere la lingua, l’arte e la cultura tedesca, ma ne salvaguardano anche il carattere di società aperta, favorendo anche l’ingresso di artisti di altri Paesi.
Cito solo due esempi per tutti: la Martin-Roth-Initiative, che offre asilo in Germania a intellettuali stranieri, che si sentono minacciati nei propri Paesi di origine nell’esercizio della propria libertà di espressione; l’importante lavoro che i 160 Uffici esteri del Goethe svolgono nel settore della mobilità professionale, anche in Italia, nei settori delle industrie creative. Grazie al suo visitors’ programme, il Goethe Institut attira ogni anno in Germania oltre un migliaio di personalità estere – artisti affermati e “young leaders” – da tutto il mondo.
In Germania, la politica estera culturale ha già da tempo esteso il proprio ambito da quello originario della promozione della lingua e della cultura tedesca a quello di strumento di interconnessione fra società civili e di attrazione di “energie vive” da altri contesti culturali: basti pensare al Berliner Künstlerprogramm, di cui hanno beneficiato dal 1964 oltre un migliaio di artisti da tutto il mondo, e che ha contribuito a rendere la capitale tedesca uno dei riferimenti mondiali dell’arte contemporanea.
Fra i Paesi prioritari della politica estera culturale della Germania – che complessivamente può contare su un budget di 1,87 miliardi di euro l’anno, distribuiti fra i Ministeri degli Esteri, della Cultura e della Ricerca – vi è proprio l’Italia: la rete delle ventiquattro istituzioni culturali tedesche nel nostro Paese – che conta Istituti Max Planck, Residenze d’artista e Accademie delle belle arti – è la più ampia al mondo.
Veniamo ora all’Italia. I suoi istituti esteri di “diplomazia d’influenza” nascono in varie fasi tra il 1889, anno di fondazione della Società Dante Alighieri grazie all’iniziativa del poeta Giosuè Carducci, il 1919, anno di costituzione dell’Ente italiano per il Turismo, il 1926 – quando vengono fondati i primi Istituti di Cultura Italiana all’Estero – e il 1934, anno di inizio delle trasmissioni in Nordamerica dell’Ente radiofonico EIAR.
L’Italia, infatti, fu uno dei primi Paesi al mondo a introdurre un servizio radiofonico per i propri cittadini residenti all’estero. In questa fase fondativa, gli istituti di “diplomazia d’influenza” erano rivolti innanzitutto alla salvaguardia dell’identità italiana nelle comunità emigrate e – nel periodo fascista – alla propaganda ideologica in favore del regime.
Nell’Italia Repubblicana, i processi di riforma hanno riguardato in primo luogo le componenti interne della nostra politica culturale, piuttosto che quelle estere. Nel 1946, i padri costituenti decidono – dimostrando una notevole carica innovativa – di iscrivere nella Costituzione italiana la promozione della cultura, al suo articolo 9 che cito testualmente: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
È uno dei passaggi più interessanti della nostra Carta Costituzionale, per tre motivi:
1) perché attribuisce i compiti di promozione culturale e scientifica alla Repubblica, e non allo Stato o al Governo, ma a tutte le istituzioni repubblicane, pubbliche e private, ponendo le basi per un assetto organizzativo “decentrato” e improntato al principio di sussidiarietà che ci avvicina più alla Germania che alla Francia;
2) perché tiene assieme i compiti di tutela e di salvaguardia del patrimonio, con quelli di promozione attiva del medesimo. Sarà un tema che ritornerà prepotentemente alla ribalta nel 2016, quando il Governo metterà mano alla riorganizzazione dei Musei statali. Ne parleremo fra poco.
3) perché tiene assieme – dimostrando un’originalità che ci accomuna a pochissimi Paesi al mondo – patrimonio culturale e paesaggistico. In questo senso anticipa di venticinque anni la Convenzione UNESCO (del 1972) sul patrimonio mondiale, culturale e naturale, dell’Umanità.
Nel 1974, con Giovanni Spadolini, venne istituto il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, che raccolse le competenze e le funzioni in materia che erano prima del Ministero della Pubblica Istruzione (Antichità e Belle Arti, Accademie e Biblioteche), Ministero degli Interni (Archivi di Stato) e della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Discoteca di Stato, editoria libraria e diffusione della cultura).
Solo nel 1986, venne istituito un Ministero dell’Ambiente autonomo.
Nei suoi primi quarantacinque anni, il Ministero dei Beni Culturali è passato attraverso diverse stagioni di riforma, ma ve ne cito solo le principali due:
a) l’istituzione nel 2009 di una Direzione Generale ad hoc “per la valorizzazione del Patrimonio Culturale”, con lo scopo di garantire una maggiore conoscibilità e fruibilità dei beni culturali, e di una seconda Direzione Generale per il Paesaggio, le Belle Arti, l’Architettura e l’Arte Contemporanee, poi divenuta nel 2019 Direzione generale “Creatività contemporanea e rigenerazione urbana”.
È stato il primo tentativo di promuovere un passaggio da una visione esclusivamente “orientata al passato” della salvaguardia dei beni culturali, e dei loro numerosi “vincoli di tutela”, per giungere ad una visione più moderna, che includa anche la promozione dell’arte contemporanea e delle energie più vive del Paese. Per dirla con Goethe nel suo Faust “Ciò che hai ereditato dai padri, sviluppalo, se vuoi possederlo davvero”.
b) nel 2016, la prima riforma organica dei Musei Statali, divenuti istituti autonomi (erano nati come Uffici periferici delle sovrintendenze). Oggi grazie a tale riforma, i 358 Musei Statali – 32 autonomi e 326 afferenti ai 17 Poli Museali regionali – hanno finalmente un interlocutore unico nella definizione delle responsabilità di tutela, nella sola Soprintendenza per l’Archeologia, le Belle Arti e il Paesaggio, competente per territorio. E possono finalmente ispirare la propria azione alle migliori prassi internazionali.
Negli ultimi anni, i principali musei europei hanno cambiato pelle, si sono trasformati in “multinazionali della cultura”, moltiplicando gli spazi e le attività, puntando sulla formazione e sulle nuove tecnologie, esportando mostre e progetti in tutto il mondo. Basti guardare al Louvre, che dalla fine degli anni ottanta a oggi ha triplicato le superfici espositive (180mila metri quadri) e i visitatori (oggi 9 milioni all’anno).
Anche numerosi Musei italiani hanno intrapreso un percorso di modernizzazione. Una ricerca presentata la scorsa settimana dal Ministro Franceschini dimostra che i soli Musei Statali valgono l’1,6% del PIL, 27 miliardi di euro e 117mila occupati.
Ogni anno vengono visitati da 24 milioni di turisti culturali, di cui i tedeschi rappresentano la principale componente estera. Vi è ancora un potenziale largamente inespresso, soprattutto nelle nuove tecnologie, che potrebbe far lievitare a 40 miliardi di euro il valore prodotto e a 200.000 unità gli occupati entro il 2030.
Anche il Ministero degli Esteri ha potenziato nell’ultimo decennio i propri strumenti di diplomazia culturale. Nel 2011 è stata istituita la Direzione Generale per la promozione del Sistema Paese, integrando le competenze delle ex Direzioni Generali per la cooperazione culturale e scientifica e per la promozione economica.
Nel 2017 è stato poi creato un Fondo ad hoc per il potenziamento della cultura e della lingua italiana all’estero che ha messo a disposizione – nel quadriennio 2017-2020 – 150 milioni di euro per attività di promotion integrata: grazie a tale strumento, è stato possibile mettere a punto una strategia istituzionale di tutto il Sistema-Paese in risposta alla “domanda di Italia” nel mondo, attraverso 8.000 iniziative di promozione culturale, economica e scientifica in 250 città in tutto il mondo.
La Germania è il primo Paese in Europa per numero di attività, circa 200 ogni anno e per loro rilevanza.
Indubbiamente, resta ancora molto da fare: l’Italia è il Paese più “instagrammato” al mondo, e il Made in Italy è il terzo brand più noto dopo Coca Cola e Visa. Eppure ci collochiamo solo al decimo posto mentre gli Stati Uniti sono al primo posto e Germania, Francia, Giappone e Regno Unito si contendono le successive quattro posizioni.
Oggi il “Soft Power” dell’Italia vive in ampia parte fuori dalle istituzioni. Sta nella ricchezza della sua storia e della sua cultura, nel fascino del suo gusto e delle sue abitudini. Nel suo stile di vita: in quel “Vivere all’Italiana” che è divenuto il leitmotiv del Ministero degli Esteri per gli eventi di promotion integrata.
Ma anche nel talento dei suoi artisti, professionisti e ricercatori che illuminano il mondo con la forza della loro creatività e della loro competenza.
Molto resta da fare, ma molto anche è stato fatto, soprattutto negli ultimi cinque anni. Expo’ 2015 è stata – con i suoi 21,5 milioni di visitatori – un’occasione unica per valorizzare la capacità attrattiva del nostro Paese e per posizionarlo al centro del dibattito internazionale su questioni strategiche per l’umanità nei prossimi decenni, come l’accesso al cibo e la sostenibilità alimentare del pianeta.
Le riforme organiche, non solo dei Musei, ma anche del Cinema e del Teatro promosse nel 2016, hanno notevolmente accresciuto i nostri strumenti di diplomazia culturale, grazie a sistemi di crediti d’imposta per le imprese intenzionate a impegnarsi nel mecenatismo culturale, nonché alle case cinematografiche internazionali interessate ad avviare co-produzioni con l’Italia che hanno certamente accresciuto la nostra attrattività internazionale.
Penso anche che debba convintamente promosso un rafforzamento degli strumenti europei di Soft Power. Innanzitutto perché complessivamente l’Europa è il principale produttore di prodotti culturali digitali al mondo, oltre che il principale consumatore. E parlando con una voce sola, potremmo – anche dinnanzi alle grandi piattaforme digitali – essere un interlocutore determinante, anche quando si discute delle remunerazioni del diritto d’autore sulle piattaforme online.
Credo che quando mercoledì 16 ottobre si aprirà a Francoforte la Buchmesse, tuttora la più grande manifestazione al mondo dell’editoria, cartacea e digitale, anche questo sarà un tema.
In secondo luogo, anche nell’ambito del soft power il sistema di relazioni internazionali si è fatto sempre di più policentrico. Oggi ci troviamo in piena “Wettbewerb der Narrativen”, in piena concorrenza fra narrazioni contendenti, per riprendere il tema di un interessante documento del Ministero degli Esteri tedesco sulla riforma della politica estera culturale.
Oggi molti Paesi, non solo occidentali, mettono il “soft power”, la cosiddetta “diplomazia di influenza” come la chiamano i francesi, al centro di una nuova “corsa agli armamenti”: non più missili o portaerei, ma canali all-news, centri culturali, scuole di lingua, mostre d’arte e campagne online.
Anche qui dobbiamo saper dialogare alla pari. In questo, il ruolo delle Università e degli Archivi, come depositari del sapere – anche digitale – in un mondo in cui si moltiplicano i casi di “fake news” e di letture stereotipate di fenomeni complessi, rimane fondamentale.
Oggi l’Italia ha 102 Archivi di Stato: in molti di questi sono custodite opere centenarie. Possiamo creare oggi digital libraries su scala continentale, come ad esempio stiamo facendo con un progetto fra l’Istituto Max Planck per la Storia della Scienza e il Museo Galileo a Firenze, che sarà presentato alle Biblioteche di Stato di Berlino il prossimo anno.
Molto può essere fatto anche attraverso nel campo della promozione delle lingue europee nel mondo. Oggi stanno imparando il tedesco 15,5 milioni di persone, mentre 2,1 milioni studiano l’Italiano. Imparare una lingua non significa soltanto memorizzare una sintassi, o un’ortografia. È soprattutto avvicinarsi alla cultura di un Paese.
Questo vale soprattutto nel caso di Italia e Germania, due nazioni che per secoli hanno trovato nella lingua il principale fattore identitario e hanno conseguito un’unità nazionale “in ritardo” rispetto ad altri Paesi protagonisti della storia europea.
Al “Bel Paese là dove il sì suona” di dantesca memoria corrisponde, per la Germania, il latino medievale theodiscus derivato dall’antico tedesco theod ossia “lingua del popolo “. Appartenere alla “Nazione Germanica” (che contava nella seconda metà del 1500 più di 6.000 iscritti alla Università di Padova) significava innanzitutto parlarne la lingua. La Lingua del Popolo: il “vulgaris” latino.
Oggi l’Europa è chiamata a sviluppare una nuova “koiné”. Ricordo che nel 2014 fu proprio la Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea a proporre il rilancio della diplomazia culturale dell’Unione, che porterà all’adozione da parte della Commissione di un Piano organico di intervento, presentato da Federica Mogherini, l’8 giugno 2016, posto sotto le competenze dell’Alto rappresentante PESC, in modo da rafforzarne la dimensione di “soft power”.
Il documento «Towards an EU Strategy for International Cultural Relations» poneva l’accento sul ruolo dell’Unione nel promuovere il dialogo interculturale e prevedeva la creazione di una “Piattaforma culturale” europea.
Altro strumento di raccordo e implementazione è costituito dalla rete di EUNIC sorta nel 2006, che riunisce oggi su base volontaria 36 istituzioni di promozione culturale degli Stati Membri, e che si è già resa protagonista di attività congiunte, come durante la tre giorni di “Weltempfang” alla Fiera del Libro di Francoforte. Dal giugno 2019, l’Italia detiene per la prima volta la presidenza annuale dell’organismo.
È necessario per noi europei sviluppare una nostra koiné, perché la concorrenza dei Paesi extra-europei nello sviluppare propri autonomi strumenti di diplomazia di influenza si è fatta spregiudicata. Gli Istituti Confucio, fondati nel 2004, sono oggi più di cinquecento in tutto il mondo. Anche le Fondazioni Russkiy Mir sono più di un centinaio, e l’influenza delle reti televisive dei Paesi del Golfo continua a crescere, anche al di fuori dello spazio arabo-islamico.
Promuovere un soft power autenticamente europeo è una prospettiva che non ci deve spaventare.
L’Italia fra il 1550 e il 1650, in quello che lo storico francese Fernand Braudel ha definito il nostro “Grand Siécle”, ha saputo irradiare, senza neppure avere alle spalle uno Stato nazionale, la propria cultura come mai prima di allora.
All’epoca inventammo dei veri e propri “format”: le Accademie delle Belle Arti, i Teatri dell’Opera, le fabbriche di strumenti musicali. È questo il punto decisivo. La capacità di far leva sul patrimonio per reinterpretare il nostro ruolo nel mondo.
Non da custodi, ma da innovatori. Da imprenditori, e – perché no – anche da maestri.
È il ruolo di chi, per secoli, ha costruito pazientemente una cultura e un “saper fare” che mette l’uomo e la sua dignità al centro del mondo. Non già una fede. Non un’ideologia nè una tecnica, per quanto rivoluzionaria (“disruptive”) essa sia.
Bensì l’uomo nella sua semplice – e imperfetta – presenza nel mondo, fine ultimo e mai strumento di qualcuno o di qualcosa.
Il che naturalmente comporta la capacità di distinguere sempre il fine dai mezzi per conseguirlo. Può sembrare una banalità, una Selbstverständlichkeit, come si dice qui in Germania.
Eppure, nulla si è rivelato meno scontato, nel recente passato delle ideologie totalizzanti e del mito della modernità imperante.
Nulla è meno scontato oggi, nell’attuale fase di “presentismo” e di governi “delle moltitudini”.
Auguro a tutti voi un bel semestre invernale e vi ringrazio della vostra attenzione