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24.11.2020: Saluto dell’Ambasciatore Luigi Mattiolo in occasione dell’Apertura del semestre invernale 2020-2021, Italienzentrum (Freie Universität Berlin): “Diversi ma insieme: il ruolo della Diplomazia culturale nel contesto della pandemia europea”

Sehr geehrter Herr Professor Bertram,
Caro Professor Huss,
Sehr geehrter Herr Doktor Grieshop,
Cari studenti, dottorandi, ricercatori e amici dell’Italienzentrum:

Sono lieto di ritrovarvi all’inaugurazione del Wintersemester dell’Italienzentrum: una bella consuetudine, quest’anno per la prima volta in formato digitale, cosa che tuttavia ci consente di raggiungere tanti appassionati della lingua e della cultura italiana in tutta la Germania. Saluto quanti di voi si sono collegati da oltre una decina di Università tedesche, e anche gli amici dell’Istituto italiano di Cultura di Berlino, con i quali la collaborazione è costante e proficua.

Vorrei ringraziare innanzitutto l’Italienzentrum per le iniziative di solidarietà promosse durante la prima ondata della pandemia. E per avere costantemente adattato i formati di divulgazione scientifica – con quindici incontri promossi nel corso del 2020 – in questi mesi così imprevedibili.

È passato poco più di un anno da quando partecipai all’apertura del “Wintersemester” del 2019. Da allora, il nostro mondo, le nostre abitudini, le nostre prospettive sul futuro, sono state sconvolte dalla pandemia. Proprio un anno fa, nel mese di novembre, si registravano i primi casi di Coronavirus in Cina. Da allora non lavoriamo e non studiamo più come prima.

La pandemia rappresenta una cesura storica la cui portata deve essere ancora pienamente compresa, riflettendosi in tutti gli ambiti delle attività umane, dall’economia alla cultura, dalla politica all’istruzione e naturalmente anche nella diplomazia.

Tanto quanto, esattamente trent’anni fa, la riunificazione tedesca ed europea rappresentavano una cesura positiva, suscitando speranze e ottimismo per l’inizio di una nuova fase storica di globalizzazione e integrazione economica, tanto oggi la pandemia ha sollecitato l’immaginario del de-coupling e ha reso la vita profondamente “locale”. In pochi mesi, abbiamo sofferto un’improvvisa contrazione del commercio internazionale (per la Germania: la più forte contrazione mensile dal 1950), la sospensione delle libertà di circolazione di merci e delle persone, la chiusura delle frontiere franco-tedesche lungo il Reno, il ripristino dei controlli all’interno delle frontiere aeroportuali dell’Unione, e – in casi fortunatamente limitati nel tempo – il ritorno alle licenze di import-export.

Le domande che ci vogliamo porre nella nostra riflessione di questa sera è: che cosa significa la pandemia per la diplomazia e in particolare per la diplomazia culturale in Europa? Ci troviamo davvero in una “Wettbewerb der Narrativen”, in un contesto di competizione fra “narrazioni” contrastanti, sulla pandemia, e sul ruolo di ciascun Paese all’interno della pandemia?

Certamente sì. Un morbo altamente contagioso e potenzialmente letale non solo divide i cittadini ma anche gli Stati. Lo fa nella maniera più subdola, imponendo ai singoli l’isolamento sociale per motivi di prevenzione sanitaria, ma anche esasperando gli stereotipi, scatenando pregiudizi latenti, stigmatizzando i contagiati, che di volta in volta sono “i giovani incoscienti”, “i cinesi untori”, “gli Stati del Sud disorganizzati”. La pandemia ha creato un “noi” e “loro” e il bisogno di rifugiarsi in facili identità collettive.

Questo riflesso istintivo di trovare rifugio nel proprio “hortus conclusus” direbbero gli antichi, nella propria “comfort zone”, si direbbe oggi, non è certo una novità. Boccaccio apre il suo “Decamerone” descrivendo i devastanti effetti sociali della peste nera a Firenze nel 1348, dove il sospetto e gli istinti di sopravvivenza si insinuavano fin nei piú profondi affetti, lacerando le famiglie: “E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito (…) . Sappiamo inoltre che il terrore del contagio e la sensazione di disfacimento suscitati dalla malattia pandemica è un “topos” della letteratura occidentale, penso al racconto “la Maschera Rossa” di Edgar Allan Poe o al romanzo” Morte a Venezia” di Thomas Mann.

Questa pandemia è stata indubbiamente un “momento della verità”a livello individuale e collettivo. Ha ricordato a generazioni di giovani europei abituati ad acquistare un biglietto aereo con la stessa facilità con cui si ordina un libro su Amazon, che le frontiere possono ritornare, e che la libera circolazione delle persone non è un “diritto acquisito”, ma una sofferta conquista che abbiamo raggiunto al termine di un percorso di integrazione europea durato quarant’anni.

Nel 1985, quando vennero firmati gli Accordi di Schengen, ricordo l’amarezza con cui molti italiani realizzarono che l’Italia non sarebbe stata inclusa nel primo gruppo “di testa” dei Paesi che avrebbero beneficiato della libera circolazione delle persone. Ma ricordo anche il senso di rivincita quando l’Italia aderì agli Accordi di Schengen nel 1990. Oggi, trent’anni dopo, sembra storia antica. Eppure, è passata soltanto una generazione da allora. La generazione di molti di voi che si sono connessi questa sera: la “Generazione Erasmus”.

E vorrei pertanto esprimere vicinanza e affetto ai tanti studenti Erasmus che hanno deciso di trascorrere il proprio semestre di scambio qui in Germania “contro i venti e le maree”. Sognando un semestre di studio e un’esperienza di vita, che purtroppo sono stati limitati – ma spero non annullati – dalle circostanze della pandemia, e dal ricorso obbligatorio a piattaforme digitali.

Sul piano delle relazioni internazionali, la “prima ondata” in Europa ha comportato momento iniziale di smarrimento, che ha sopraffatto molti di noi. Sono scattati, anche qui in Germania, meccanismi di autoprotezione che in Europa non vedevamo da decenni. Eppure, proprio i trent’anni della riunificazione tedesca ci insegnano questo: che una crisi senza confini non può essere risolta edificando nuovi “Muri” fra di noi. Né per difenderci dallo “Straniero” che vorrebbe entrare, né – come ai tempi del Muro di Berlino – per trattenere i cittadini all’interno.

Purtroppo, il più atavico dei sentimenti umani – la paura – genera sospetto. E il sospetto induce alla chiusura. È stato un graduale slittamento su un piano già inclinato dall’emergenza, ma che ha portato a parlare di “virus cinese” e – qui in Europa – ha innescato in vista della stagione turistica estiva una paradossale rincorsa “al rialzo” fra chi riusciva a esibire il minor numero di positivi COVID.

Nel mese di aprile hanno cominciato a diffondersi insinuazioni su presunti “accordi segreti” per costituire corridoi preferenziali per le vacanze estive. Fortunatamente, una tempestiva iniziativa del Governo tedesco per riportare alla luce e in un quadro di collaborazione europea il coordinamento della modulazione dei “consigli di viaggio” per i turisti ha rapidamente silenziato questi “giocatori d’azzardo”.

I canali della diplomazia tradizionale hanno funzionato. Altrettanto importante è stata la “public diplomacy”. Perché nel nostro mestiere è tanto importante il riferire, quanto il “comunicare”. Ricorderete l’intervista del Presidente Conte su ARD in prima serata il 31 marzo 2020, i successivi interventi sulla stampa tedesca e l’iniziativa di solidarietà “We Are in This Together”, con cui deputati di diversi partiti tedeschi hanno sottoscritto il 22 aprile dinanzi alla nostra Ambasciata un appello che ha poi raccolto oltre 25.000 adesioni online.

Dietro tutto questo, vi è una diplomazia attenta agli aspetti culturali e specialmente ai valori fondanti del vivere comune in Europa. Penso che questo tipo di diplomazia abbia consentito, con la discrezione e il “dietro le quinte” tipico di questi interventi, di orientare la politica lontano da scorciatoie di “giochi a somma zero” e in direzione di equilibri cooperativi.

La nostra azione ha potuto fare affidamento e trovare alimento in uno dei pochi effetti collaterali positivi del Covid-19: la crescente consapevolezza che questa crisi assumeva dei contorni globali di giorno in giorno e che l’altezza della sfida sanitaria, economica, finanziaria e sociale era tale da non poter essere affrontata da nessun paese singolarmente, men che mai in Europa, un Continente ormai interconnesso e integrato in profondità.

Questo sentimento ha preso forma in numerosi Paesi europei e in primo luogo in Germania, dove ha preso le mosse dalla valutazione che – a differenza della crisi finanziaria del 2010 (che molti partner UE avevano imputato anche a una disinvolta gestione delle finanze pubbliche in altri Paesi dell’Eurozona) – la crisi attuale non fosse imputabile a nessuno; che fosse appunto “Unschuldig”, una parola della lingua tedesca che in questi mesi ho imparato a conoscere e soprattutto ad apprezzare, perché è stato il fattore scatenante di una inedita narrativa positiva, di un autentico cambio di paradigma che ha condotto a concordare al Consiglio europeo del luglio scorso quel complesso dispositivo di misure di contenimento dei danni provocati dalla pandemia e di rilancio dell’Europa che va sotto il nome, a voi così confacente, di “Next Generation EU”.

Di fronte a questa dimostrazione del potere della narrativa, di cui la diplomazia culturale si fa veicolo consapevole, permettetemi di concludere questa riflessione guardando con ottimismo alla fine della pandemia e al ruolo che nel post-pandemia avrà la diplomazia culturale, come “politica estera delle società civili” (per usare la definizione data da Ralf Dahrendorf alla Ostpolitik tedesca degli Anni ‘70).

La pandemia ha prodotto narrazioni diverse in diversi Paesi. La prospettiva di circoscrivere la vita pubblica per ridurre la diffusione del virus, l’opportunità di limitare i diritti fondamentali dei cittadini e il delicato equilibrio fra diritto alla salute e tutela della libertà di espressione sono ancora oggi ampiamente discusse. Il modello svedese, un tempo ammirato, è ora valutato criticamente; Paesi come l’Austria che durante la prima ondata esibivano un numero limitato di casi, con iniziative “bandiera” come le “Smart Seven Nations”, stanno affrontando ora un lockdown tra i più severi in Europa. L’Italia stessa, da essere epicentro della pandemia, è stata per diversi mesi esempio brillante di contenimento di successo prima di essere nuovamente colpita in pieno dalla seconda ondata.

Sebbene la situazione sia in evoluzione, osserviamo già ora come anche in questa seconda ondata, si diffondendo nuovamente narrative distorte. Le linee di frattura rischiano di riproporsi, anche se non specularmente, anche sulle decisioni nel contenimento della pandemia. Per questo motivo vedo un ampio margine di intervento per la diplomazia culturale: la storia deve ancora essere scritta, siamo ancora in tempo per evitare una storiografia della pandemia che distingua tra untori e unti, tra vincitori e vinti, tra stigmatizzati e sani, tra efficienti e disorganizzati.

In estrema sintesi, possiamo ancora evitare una storiografia della pandemia che si riduca a un “gioco a somma zero” fra chi vince e chi perde.

Tutte queste categorie troveranno una loro collocazione quando l’evidenza scientifica ci consentirà di acclarare la genesi della pandemia, e le dinamiche della diffusione iniziale del virus potranno essere pienamente accertate. Ma – in attesa di questo – la diplomazia può – e deve, a mio avviso – adoperarsi affinché questa cesura storica venga ricordata con stigma nazionali come fu con “la Spagnola” esattamente un secolo orsono. In questa paziente, ma tenace, opera di divulgazione, anche istituzioni di ricerca e di formazione come l’Italienzentrum possono svolgere un ruolo fondamentale e farsi “Ambasciatori della cultura”. Perché è questo il ruolo, in ultima istanza, della diplomazia culturale: non alimentare polemiche o argomentare conflitti, bensì contribuire alla ricerca della verità e all’affermazione della giustizia.

Vi auguro un Wintersemester pieno di scambi fruttuosi fra Italia e Germania, utilizzando quelle tecnologie digitali che già in quest’anno siete riusciti a dominare. E soprattutto auguro a voi e a me stesso di inaugurare nel 2021 il prossimo Wintersemester ritornando, come fu nell’ottobre del 2019, nella vostra bella sede di Dahlem.